MACC di Calasetta: un viaggio senza ritorno? Articolo di Pino Giampà su Art a part of culture
Nessun comunicato, nessun bando pubblico, sia la rimozione della vecchia che la nuova direzione sono state fatte passare sotto un inquietante silenzio. Intanto sul web è sparita anche la pagina facebook del Macc.
L’avevamo anticipato nell’articolo precedente: dopo aver indotto alle
dimissioni il Leone d’Oro Stefano Rabolli Pansera, la Fondazione MACC ha
nominato come nuovo direttore (art director?) l’artista, critico,
incisore, nonché docente dell’Accademia di Torino, Pino Mantovani.
Ma non finisce qui: il museo verrà dedicato esclusivamente alla valorizzazione della collezione, quindi non sarà più sede delle attività legate alla residenza dei giovani artisti, i quali dovranno operare nella galleria (a cielo aperto) di Mangiabarche.
In parole povere, quella che rappresentava la vera novità del progetto Beyond Entropy, cioè il mettere in relazione dinamica museo, galleria Mangiabarche, residenze e giovani artisti, viene di fatto azzerata, silurando Rabolli Pansera per eccessiva innovazione ma facendo girare la voce sui presunti alti (?) costi delle residenze. Girare la voce è il termine giusto, e non solo per descrivere una realtà sociale (del resto Calasetta è un piccolo centro del Sulcis), ma soprattutto per rimarcare il fatto che nessuna comunicazione ufficiale è stata diramata e nessun bando pubblico è stato necessario, arrivando nell’assoluto silenzio (anche da parte del mondo dell’arte isolano) ad una soluzione che potrebbe mettere a rischio il prezioso lavoro fatto finora.
Costi che non deve essere stato poi così difficile far passare per
insostenibili, soprattutto di questi tempi e da queste parti. Una cifra
probabilmente al di sopra delle normali spese pensate e dedicate
all’arte e alla cultura, ma fatta girare senza evidenziarne l’onestà
delle singole voci. Per quello che abbiamo potuto dedurre dalle nostre
informazioni il capitolo è composto da normalissimi costi di viaggio a/r
(prevalentemente low cost), molti dei quali da Londra (area da cui
provenivano, oltre che lo stesso direttore, la gran parte degli artisti
in residenza), un mese di permanenza (in popolarissima casa in affitto a
bassissimo canone) con pranzi il più delle volte frugali (quasi sempre
in casa o nello studio nel museo ma raramente al ristorante), un modesto
ma sufficiente rimborso spese, un piccolo contributo per la produzione
delle opere, in molte occasioni realizzate quasi a costo zero, spesso
con l’aiuto di artigiani e mano d’opera locale (questa mai a costo
zero). Moltiplichiamo il tutto per quasi un anno di attività con una
turnazione media di due artisti al mese, mettiamoci su un altro
preventivo per imbiancare ogni tanto alcune pareti per cancellare gli
interventi site specific degli artisti ed eccoci arrivati ad una cifra
abbastanza consistente, utile per dimostrarci di essere stati bravi (o
costretti?) nell’aver messo in luce e posto rimedio all’insostenibile
spreco e all’impopolare sprecone. Poco importa che allo stesso costo di
una serie di mostre tradizionali (dello stesso livello e numero) la
Fondazione ed il Comune di Calasetta hanno potuto contare su
un’attenzione mediatica senza precedenti e per ogni giorno dell’anno. Il
clima che si respira è pesante, molti degli addetti ai lavori
preferiscono aspettare comunicazioni ufficiali ed un riscontro oggettivo
nei dati, ma a me basta osservare che la programmazione è ferma da
quasi cinque mesi e che la residenza di Giorgio Andreotta Calò prevista
per Dicembre non ha avuto luogo: questo sarebbe dovuto bastare per
mettere in allarme, ma niente di tutto ciò è accaduto, solo un
preoccupante grande silenzio.
Certo, ad oggi, nessuna notizia lascia intendere che le residenze verranno meno e che prima di esprimere un giudizio così preoccupato come il nostro bisognerebbe attendere di conoscere il programma del nuovo direttore, ma la puzza di bruciato è piuttosto forte e se a bruciare non fosse la speranza che il Sulcis possa essere qualcosa di più che il territorio più povero, più inquinato, più depresso, più ostile e… più assistito d’Italia.
Nella Fondazione, nell’amministrazione locale e nella popolazione
sicuramente qualcuno si è indignato per la presenza di opere e di
pratiche curatoriali poco rispettose della collezione, che ha rischiato
di passare in secondo piano rispetto all’irruenza visiva e mediatica dei
giovani artisti.
Ma l’ipocrisia è lunga quanto la memoria sembra essere corta: nel 2000, quando fu inaugurato il Museo (voluto dall’artista Ermanno Leinardi 1933-2006), l’evento dovette svolgersi con la presenza delle forze dell’ordine, chiamate per proteggere la collezione da una popolazione infuriata, scatenata ad arte da chi le aveva fatto credere che il comune avesse speso addirittura un miliardo delle vecchie lire, quando in realtà essa non costò neppure un centesimo alle casse comunali.
Ci fa sicuramente piacere tutto questo rinato ed improvviso amore verso
il museo e la collezione, ma ricordo di aver visto personalmente i
registi delle presenze prima che arrivasse Stefano Rabolli Pansera, e
aggiungerei la bravissima Valeria Frisolone (anch’essa messa alla
porta?): ebbene, nonostante il museo fosse aperto tutto l’anno, non
trovai che la presenza di non più di dieci persone al mese, a parte
naturalmente il periodo estivo. Certo valorizzare la collezione è
importante, anzi direi fondamentale, dal momento che si tratta di una
delle più importanti in Italia per quanto riguarda l’arte astratta:
prestigiosa soprattutto nei nomi però, non di certo nella qualità nelle
opere, donate dagli artisti amici ed ospiti di Ermanno Leinardi nella
sua meravigliosa Calasetta. Giocoforza, quasi nessuno degli artisti, di
ben altro successo rispetto al locale maestro, ha risposto a tanta
sincera ospitalità con un capolavoro o sua indimenticabile opera
fondamentale. Ma cosa c’è di peggio per valorizzare una collezione
d’arte astratta che mettere come nuovo direttore un artista figurativo
(nel senso più banale e deleterio del termine) tradendo proprio l’utopia
estetica e rivoluzionaria portata avanti dall’arte astratta che tanto
si vorrebbe difendere e valorizzare? Non sarebbe stato più coerente
portare avanti il progetto (recuperando altre necessarie risorse) che
invitava gli artisti ospiti (alcuni dei quali, seppur giovani, con una
promettente e concreta carriera artistica e commerciale) a produrre
chances per capolavori, per arricchire ed aggiornare la collezione?
Non vorremmo che tutto questo monta, smonta e rimonta finisca per essere la solita sfida tra un’arte che si appende alle pareti e alla pacifica coscienza collettiva V/S quella che utilizza le stesse pareti e la coscienza collettiva come opera; o peggio ancora: che il gioco riguardi certa sostenibilità da parte della politica che non vede di buon auspicio azioni estetiche e culturali e costi non comprensibili agli elettori?
Nell’Isola, sull’insostenibilità dei costi e, in questo caso, delle archistar, è già stato affondato il Betile: Cappellacci e la sua banda erano riusciti a far credere alla popolazione del limitrofo e poverissimo quartiere di Sant’Elia che i soldi destinati al museo progettato dall’Hadid fossero stati sottratti all’edilizia popolare.
La necessità di continuare nell’ottica della professionalità, del rigore e della qualità della ricerca artistica contemporanea è l’unico antidoto contro chi, cavalcando un populismo carico di stereotipi e di menzogne, continua a dominare e a demolire ogni tentativo di rinascita culturale e sociale nei territori periferici. La colpa però è anche di chi opera con l’esclusiva preoccupazione di quello che arriva (e rimane) dentro il sistema dell’arte di riferimento, incurante se nell’azione artistica, che ha coinvolto un determinato territorio, siano state messe in campo azioni adeguate anche ad educare sui linguaggi ed i codici espressivi specifici dell’arte contemporanea. Alla fine queste cattive pratiche autoreferenziali finiranno per fare tabula rasa anche delle esperienze positive, spianando la strada al ritorno ed al trionfo locale di artisti, imbonitori e politici mediocri incapaci e poco interessati a creare valore culturale reale?
Pino Giampà
Ma non finisce qui: il museo verrà dedicato esclusivamente alla valorizzazione della collezione, quindi non sarà più sede delle attività legate alla residenza dei giovani artisti, i quali dovranno operare nella galleria (a cielo aperto) di Mangiabarche.
In parole povere, quella che rappresentava la vera novità del progetto Beyond Entropy, cioè il mettere in relazione dinamica museo, galleria Mangiabarche, residenze e giovani artisti, viene di fatto azzerata, silurando Rabolli Pansera per eccessiva innovazione ma facendo girare la voce sui presunti alti (?) costi delle residenze. Girare la voce è il termine giusto, e non solo per descrivere una realtà sociale (del resto Calasetta è un piccolo centro del Sulcis), ma soprattutto per rimarcare il fatto che nessuna comunicazione ufficiale è stata diramata e nessun bando pubblico è stato necessario, arrivando nell’assoluto silenzio (anche da parte del mondo dell’arte isolano) ad una soluzione che potrebbe mettere a rischio il prezioso lavoro fatto finora.
una sala del museo durante una residenza |
Certo, ad oggi, nessuna notizia lascia intendere che le residenze verranno meno e che prima di esprimere un giudizio così preoccupato come il nostro bisognerebbe attendere di conoscere il programma del nuovo direttore, ma la puzza di bruciato è piuttosto forte e se a bruciare non fosse la speranza che il Sulcis possa essere qualcosa di più che il territorio più povero, più inquinato, più depresso, più ostile e… più assistito d’Italia.
Ma l’ipocrisia è lunga quanto la memoria sembra essere corta: nel 2000, quando fu inaugurato il Museo (voluto dall’artista Ermanno Leinardi 1933-2006), l’evento dovette svolgersi con la presenza delle forze dell’ordine, chiamate per proteggere la collezione da una popolazione infuriata, scatenata ad arte da chi le aveva fatto credere che il comune avesse speso addirittura un miliardo delle vecchie lire, quando in realtà essa non costò neppure un centesimo alle casse comunali.
un'incisione del nuovo direttore Pino Mantovani |
Non vorremmo che tutto questo monta, smonta e rimonta finisca per essere la solita sfida tra un’arte che si appende alle pareti e alla pacifica coscienza collettiva V/S quella che utilizza le stesse pareti e la coscienza collettiva come opera; o peggio ancora: che il gioco riguardi certa sostenibilità da parte della politica che non vede di buon auspicio azioni estetiche e culturali e costi non comprensibili agli elettori?
Nell’Isola, sull’insostenibilità dei costi e, in questo caso, delle archistar, è già stato affondato il Betile: Cappellacci e la sua banda erano riusciti a far credere alla popolazione del limitrofo e poverissimo quartiere di Sant’Elia che i soldi destinati al museo progettato dall’Hadid fossero stati sottratti all’edilizia popolare.
La necessità di continuare nell’ottica della professionalità, del rigore e della qualità della ricerca artistica contemporanea è l’unico antidoto contro chi, cavalcando un populismo carico di stereotipi e di menzogne, continua a dominare e a demolire ogni tentativo di rinascita culturale e sociale nei territori periferici. La colpa però è anche di chi opera con l’esclusiva preoccupazione di quello che arriva (e rimane) dentro il sistema dell’arte di riferimento, incurante se nell’azione artistica, che ha coinvolto un determinato territorio, siano state messe in campo azioni adeguate anche ad educare sui linguaggi ed i codici espressivi specifici dell’arte contemporanea. Alla fine queste cattive pratiche autoreferenziali finiranno per fare tabula rasa anche delle esperienze positive, spianando la strada al ritorno ed al trionfo locale di artisti, imbonitori e politici mediocri incapaci e poco interessati a creare valore culturale reale?
Pino Giampà
una sala del museo oggi, con la collezione sulle pareti (e sui tavoli), in fondola pedana per le esibizioni canore e poetiche |